In tutti questi anni, confortati dall’evidenza statisticamente sempre più significativa di risultati risolutivi nei confronti di patologie prima ritenute intrattabili, abbiamo dovuto rivedere il nostro approccio nei confronti dei meccanismi compressivi, rivalutando sempre più il ruolo dell’infiammazione anche in quelle patologie da conflitto disco-radicolare, da sempre ritenute tipicamente meccaniche, come la protusione e l’ernia del disco.
E’ noto che una compressione meccanica anche forte esercitata ad esempio con una pinza su una radice sana esposta chirurgicamente, non provoca in alcun modo dolore. Viceversa una forte risposta dolorosa si ottiene anche con un minimo contatto e quindi effetto complessivo praticamente nullo, di una radice danneggiata da un prolasso erniario.
Questo indica una aumentata sensibilità della radice e suggerisce che debbano esservi altre importanti reazioni che vanno oltre il semplice meccanismo della compressione, nel determinare la sensazione algogena. L’esame istologico di queste radici nervose mostra frequentemente una iperplasia del perinevrio e la presenza di infiltrati cronici di cellule infiammatorie (Lindahl) e queste alterazioni sono state descritte anche nella stenosi spinale (Watanabe e Parke). E’ stato altresì da Aa suggerito (Lipson e Muir – Silbert), con approfonditi studi istologici di dischi erniati di animali e dell’uomo, che la sindrome attribuita alla compressione, meglio si spiega come un processo degenerativo del disco con esito in una risposta riparativa di tipo proliferativo.
L’evento meccanico costituirebbe dunque solo il momento patogenetico iniziale peraltro fondamentale nello scatenamento del quadro clinico. Appare logico anche ricondurre l’espressività (gravità) clinica di quadri algico-deficitari più significativi alla entità (volume) della lesione che li sostiene.